Titolo originale: Amba-Jataka, n.474

Il figlio di un sacerdote, la cui famiglia era stata sterminata dalla malaria, aveva cominciato a girovagare per il Paese. Così era giunto in un villaggio abitato da chandala – intoccabili senza casta.

Uno di loro era il bodhisattva: era saggio e intelligente e conosceva una formula magica che, se recitata davanti a un albero, indipendentemente dalla stagione, faceva maturare frutti sui suoi rami. Vendendo questa frutta il bodhisattva riusciva a sostentarsi.

Il giovane bramino passò di lì proprio mentre il bodhisattva si trovava davanti a un albero di mango: lo vide recitare la formula e spargere acqua sulle radici a mo’ di offerta. Prodigiosamente vide le foglie appassite cadere per terra e spuntarne di nuove. I fiori sbocciarono, si aprirono, poi sfiorirono e i frutti maturarono nell’arco di pochi minuti. Non appena caddero al suolo, il bodhisattva li raccolse e li portò nella sua capanna per venderli l’indomani.

Il giovane bramino, che aveva osservato con attenzione tutta la scena, fu preso dal desiderio bruciante di conoscere la formula. Corse alla casa del chandala e lo aspettò sulla soglia, offrendosi di aiutarlo con le pesanti ceste di manghi. Ma il bodhisattva, che era saggio, capì subito le intenzioni del giovane e pensò: “Questo bramino è un uomo malvagio e non saprà tenere la formula in debito conto”.

Il giovane però non si arrese e si propose al chandala come servo: fece per lui i lavori più vili e faticosi, come recuperare legna, cucinare e lavare i piedi al bodhisattva, e cose simili. Qualche mese dopo la moglie del bodhisattva mise al mondo un bambino e il bramino aiutò anche in quell’occasione. Allora la donna disse al marito: “Questo bramino fa tutto questo solo per conoscere la formula magica. Che poi la custodisca o no, cosa importa? Ti prego, marito mio, accontentalo.”

Il bodhisattva acconsentì e, preso in disparte il servo, gli recitò la formula.

Jataka La formula magica - melagrana

Poi lo ammonì: “Figliolo, questa formula magica ha un valore inestimabile. Grazie al suo aiuto otterrai grande fama e ricchezza. Però se qualcuno ti domanderà da chi l’hai avuta, non dovrai mai e per nessun motivo rinnegarmi. Se ti vergognerai di ammettere che l’hai ricevuta da un chandala e dirai una bugia, la formula cesserà di servirti”.

“Mio signore” rispose il bramino “perché mai dovrei rinnegarti? Non accadrà!”

 

Dopodiché saluto il suo maestro e andò a Benares dove visse della vendita di frutta, guadagnando molti soldi.

Un giorno uno dei suoi manghi finì sulla tavola del Re, il quale si meravigliò molto che ci fosse frutta matura e squisita in quella stagione assolutamente non consona. Chiese da dove provenissero e apprese del bramino. Allora ordinò che da quel momento in avanti il bramino vendesse tutta la sua frutta a lui. E così fu.

Dopo che i rapporti tra i due divennero frequenti, il Re un giorno chiese al bramino: “Giovane amico, toglimi una curiosità: da dove ricevi tutti questi frutti squisiti? Te li regala forse il re dei serpenti, o un folletto, o addirittura un dio, o conosci forse una formula magica che ti permette di farli maturare fuori stagione?”

L’altro non riuscì a trattenersi: “Non me li regala nessuno; conosco una formula magica di incommensurabile valore che mi consente di farli maturare”.

Il re, interessatissimo, lo pregò con insistenza di mostrargli il potere della formula, perché voleva assistere al prodigio. Il bramino, che era assai vanitoso, acconsentì. Il giorno appresso si recarono insieme nel parco, dove si trovava un albero di mango. Il bramino recitò la formula, asperse un po’ d’acqua sulle radici, e poco dopo germogliarono le foglie, fiorirono le gemme, crebbero i frutti e caddero in terra i manghi maturi.

Jataka La formula magica - albero del mango

 

Il re esplose in un’esclamazione di giubilo: “Chi ti ha insegnato questa straordinaria magia? ” chiese.

Il bramino, a questo punto, esitò. Pensò: “Se dico che l’ho avuta da un chandala, potrebbe danneggiare l’immagine che il Re ha di me. Ormai conosco molto bene questa formula: non la perderò!”

E così rispose: “Ho appreso la formula da un maestro bramino di Takkasila, noto in tutto il mondo”.

Nel momento stesso in cui pronunciò queste parole, il bramino perse tutto il suo potere e, quando la volta successiva il re volle gustare i suoi frutti maturi, egli non fu in grado di venderglieli. Cercò di scusarsi asserendo che le costellazioni non erano favorevoli, ma il Re non gli credette, perché in precedenza non aveva mai fatto cenno a cose del genere.

Allora il giovane capì che era più saggio dire la verità:

“Quando, signore, mi chiedesti, io ti risposi per codardia,

pur avendo promesso diversamente, con una bugia;

non da un bramino, ma da un chandala la imparai.

Per questo ho perso il potere magico, e me ne dolgo”.

Il re pensò: “Questo essere miserevole non ha saputo tenere in debito conto un vero tesoro, solo perché il suo benefattore era un chandala”.

Quindi lo apostrofò duramente: “E’ del tutto secondario a che casta appartenga colui che ti ha regalato questa saggezza. Il semplice fatto che ti abbia dato la formula, lo nobilita. Ma tu, che razza di bugiardo ingrato sei?”

E ordinò ai suoi servitori di cacciarlo dal palazzo.

I servi ebbero pietà del bramino, e gli consigliarono di tornare dal bodhisattva. Se fosse riuscito a farsi perdonare e ridare la formula, loro forse avrebbero potuto convincere il re a comprare ancora la frutta da lui, o quantomeno a permettergli di venderla a Benares.

Afflitto e in lacrime, il bramino tornò al villaggio del bodhisattva. Non appena lo vide, il chandala capì subito cosa era accaduto. Il bramino gli raccontò tutta la storia, e chiese umilmente scusa tra le lacrime, implorandolo di ridargli il potere della formula.

Però il bodhisattva replicò: “Se a un cieco si dice di alzare un piede perché c’è un gradino, se il cieco è intelligente, lo farà. Io ti ho insegnato la formula e ti ho istruito a non rinnegarmi. Con quella bugia, detta per stoltezza e codardia, hai perso il tesoro che nessun altro possedeva”.

“Allo stolto, al confuso, all’ingrato,

allo smodato che racconta bugie,

a lui non voglio più affidare questa magia.

E perché mai dovrei? Vattene, non mi piaci”.

Il bramino se ne andò a testa bassa. Non potendo più tornare a Benares, si incamminò verso una landa desolata, dove infine morì di fame.

 

Virtù associata: sincerità

La sincerità, in questo Jataka, non è, come spesso accade, presentata come una virtù un po’ naif. Non ha a che fare con l’ingenuità o l’ottusità; al contrario essa richiede coraggio perché significa non solo tener fede alla propria parola, ma anche anteporre la verità alla propria stessa sicurezza.

Tributare riconoscenza a chi la merita- come per esempio i nostri Maestri – non è solo la cosa giusta da fare, ma rappresenta anche l’unico modo per poter far fruttificare ciò che ci viene insegnato: nel momento in cui, con presunzione ed ignoranza, pensiamo di poterci sostituire a chi ci ha trasmesso con amore i suoi Insegnamenti, in quel preciso momento disconnettiamo noi stessi dalle Energie Superiori, vanificando tutti i nostri sforzi ed annullando ogni nostro precedente progresso.

La Sincerità è una virtù che andrebbe praticata non solo verso gli altri, ma soprattutto verso sé stessi: è il presupposto irrinunciabile per poter avere una corretta ed accurata percezione della realtà, e per poter agire, conseguentemente, nel modo più appropriato, come illustrato anche nel jataka Lo sciacallo presuntuoso.

Il tema della sincerità si connette fortemente anche con la gratutidine: altri jataka interessanti in questo senso, che trattano proprio della virtù della gratitudine, sono La gazzella d’oro e Il picchio e il leone.

 

Tratto da D. e G. Bandini, Quando Buddha non era ancora il Buddha, Feltrinelli, Milano, 2008.

Sabrina